Pubblicato su politicadomani Num 89 - Marzo 2009

Una lettura non conformista della crisi dei mercati immobiliari
America Punto e a Capo


I seguenti sono solo alcuni brani scelti dal libro di Marco Vitale pubblicato sette anni fa da Sceiwiller libri. Solo alcuni spunti di quanto sia necessaria per evitare disastri una buona cultura, una informazione responsabile e trasparente e l’esercizio dell’etica, soprattutto in economia

La questione morale

Chi non l'ha conosciuta dall'interno, non può immaginare quale straordinaria organizzazione fosse, per esempio, 1'Arthur Andersen degli anni Cinquanta, Sessanta, Settanta. Un'organizzazione dove l'integrità era la vera sostanza e specializzazione professionale, l'indipendenza intellettuale una bandiera, la trasparenza esterna e interna a tutti i livelli un inderogabile credo, il rigore morale assoluto e difeso con grande attenzione. Ricordo che essendo rimbalzata a livello di casa madre americana di un cliente la notizia che la controllata italiana avrebbe pagato una bustarella al fisco italiano, io, come socio responsabile di quel cliente, fui sottoposto a una investigazione approfondita da parte di un socio anziano venuto apposta dagli Stati Uniti, che durò una settimana, con molti interrogatori che mi riportarono alla memoria i raffinatissimi metodi dell'Inquisizione.
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[La Arthur Andersen sarebbe crollata perché] la loro organizzazione era diventata nel tempo, a poco a poco e nel quadro di un processo che ha coinvolto l'intera professione, intrinsecamente "amorale". Ed è questa la causa vera del loro improvviso, sorprendente e dolorosissimo crollo, causa della quale non riescono a rendersi conto.
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Che cosa intendo con l'espressione "amorale"? Gradualmente, ma con continuità, 1'Andersen, come parte di una involuzione generale della pro­fessione degli esperti contabili, aveva abdicato al suo compito istituzionale fondamentale, che era quello di essere al servizio del pubblico, per appiattirsi su una revisione fatta di puro rispetto formate di regole, il cosiddetto compliance audit, contro il quale Arthur Andersen aveva messo in guardia in un memorabile intervento all'assemblea dei soci il 27 ottobre 1936 [nel quale aveva minacciato di abbandonare la ditta che aveva fondato]
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La corsa all’indietro

Questa non è l'America che corre in avanti. Questa è l'America che corre all'indietro, verso gli anni Venti. Perché? Che cosa è successo?
Io mi limito a portare la mia riflessione che non è di oggi, ma è maturata nel tempo attraverso una continua osservazione. Da tempo vedo all'opera, come spiegazione almeno parziale, dell'involuzione sopra delineata, due forze poderose.
La prima è la caduta continua della credenza in standard etici oggettivi propri di ogni professione. Gradualmente, con la crescita continua del mercato, la convinzione che ciò che vince sul campo del mercato (ciò che cresce di più e che ha più reddito) è l'unico metro di misura valido, ha preso possesso, in ogni settore, delle menti, del giudizio, dei comportamenti. I primi segnali di questa tendenza li ho osservati all'opera proprio in Arthur Andersen sin dagli ultimi anni Settanta.
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Bene ha illustrato Michael Prowse sul Financial Times del 13-14 luglio 2002: “Il problema sottostante [i1 capitalismo odierno] - esacerbato dal crescente dominio del mercato - è che noi viviamo in un'epoca che potremmo chiamare "post-ethical". La gente continua a utilizzare il linguaggio morale, ma ha da tempo cessato di credere che la morale possa avere un fondamento oggettivo. Essi sono diventati emotivist: cioè trattano, in misura crescente, i giudizi morali come espressione di aggregazione e disapprovazione personale... (basate essenzialmente sulla convenienza personale)... Consegue che i tentativi di riparare il sistema con pochi interventi cor-ettivi sono destinati a fallire. I1 problema di fondo è la perdita della credenza in standard etici oggettivi. E la crescente dominanza del mercato ha contribuito a questo collasso morale”.
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La nuova “aristocrazia industriale”

In una relazione del 1998 (ora in Sviluppo e Spirito d’Impresa, edizioni II Veltro, 2001) affermavo: “Nel frattempo nella grande impresa è avvenuta, negli ultimi venti anni, una nuova grande rivoluzione. Spariti i robber barons, spariti i tycoons, spariti i grandi imprenditori alla Ford, spariti i grandi manager alla Watson, se non per pochi casi che fanno più folklore che sistema, il potere di questo settore determinante della vita economica è stato, lentamente ma tenacemente, scalato da una nuova classe, fatta per lo più di volti anonimi, che si è autopromossa a nuova aristocrazia, che con le antiche aristocrazie ha delle analogie ma anche molte differenze.
L’elemento comune principale è che essa preleva un surplus che non ha più alcuna relazione con i servizi resi, ma che deriva solo da una posizio­ne di potere occupato. I compensi e le forme partecipative prelevati dal big management del big business sono diventati di natura e proporzione tali da non potere più, in alcun modo, essere ricondotti a un corrispettivo per un qualsiasi lavoro professionale direttivo. Essi sono un prelievo e non più un corrispettivo. E la loro legittimazione è basata su una posizione di potere raggiunta, posizione di potere sottoposta a ben pochi controlli o bilanciamenti, dopo che la proprietà alla quale competeva principalmente tale funzione si è dispersa ed è praticamente sparita. Una delle differenze principali con le vecchie aristocrazie è che queste avevano la funzione di dirigere e proteggere la loro popolazione, mentre l'aristocrazia industriale non ha nessuna pretesa di questo tipo: essa vuol solo servirsi della popolazione di appartenenza, non dirigerla”. Un'altra differenza è che essa non assicura ai suoi membri una solida stabilità. Saldamente insediata come classe, la nuova aristocrazia industriale è sottoposta, nei suoi singoli membri, a rapide mutazioni.”
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“Tuttavia, proprio verso questa parte gli amici della democrazia devono continuamente rivolgere lo sguardo e diffidare, poiché, se la diseguaglianza permanente delle condizioni e l'aristocrazia dovessero penetrare di nuovo nel mondo, si può prevedere che penetreranno da questa porta” (Tocqueville, La democrazia in America, 1835 - capitolo XX, "Come l'aristocrazia può nascere dall'industria").
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Globalizzazione ed esclusione
                                                                                                    
Non vi è dubbio che la globalizzazione, aumentando il benessere e il potere dei paesi che appartengano al club, accentua la gravità della situazione degli  esclusi. 
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In certi paesi ex collettivisti, sotto l'impalcatura statalista e collettivista era sopravvissuta la struttura di un sistema di diritto; individuale di matrice europea, che è riemerso come trama portante della società e dell'economia; mentre in Russia - come del resto in Albania - dietro il diritto collettivista c'era il vuoto e questo vuoto è stato riempito dal potere senza regole, dall'arbitrio, dalle mafie.
Ogni volta che riusciamo veramente a calarci in situazioni di non svi­luppo per penetrarne le cause, troviamo per lo più che le ragioni principali affondano le loro radici non in cause economiche ma antropologiche, politiche, morali, istituzionali. In sintesi è, quasi sempre, la mancanza del diritto la causa ultima del non sviluppo, mentre dietro a questa mancanza di diritto vi sono molteplici cause di varia natura non sempre facili da cogliere e soprattutto da correggere.
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Dunque, gran parte delle esclusioni non sono tanto per carenza di mezzi, quanto per carenza di quello che i nostri grandi teorici dello sviluppo del secolo scorso (dagli illuministi lombardi sino a Cattaneo, passando attraverso Romagnosi, che avevano capito tutto dei fondamentali del processo di sviluppo) chiamavano "incivilimento". È sempre l'esclusione dal diritto e dal capitale, nell'interno dei paesi di fasce enormi della loro popolazione che determina l'esclusione di questi paesi dalle possibilità reali di svilup­po, entrando nel club della globalizzazione. Questa scoperta, o riscoperta, di De Soto* che lo sviluppo è innanzi tutto una questione di diritto, dovrebbe essere di grande utilità ai grandi organismi finanziari internazionali, come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario che, basandosi invece su una teoria puramente economicistica e finanziaria dello sviluppo, che montagne di evidenze empiriche e storiche dimostrano essere, al di là di ogni possibile dubbio, profondamente sbagliata, raramente sono stati capaci di azioni utili per far emergere la straordinaria energia nascosta e potenziale degli esclusi. E forse questo compito va al di là delle loro capacità e delle loro potenzialità. Forse è bene non nutrire in essi aspettative esagerate. Forse perché questo avvenga sono necessari nuovi organismi e nuovi patti oltre a quelli nati a Bretton Woods.

* Hernesto De Soto, “Il mistero del capitale. Perché il capitalismo ha trionfato in Occidente e ha fallito nel resto del mondo”, Garzanti, 2001

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